Il triduo pasquale bustocco di un tempo
Rigorose "procedure" durante il fine settimana pasquale
I giorni della vigilia, per noi ragazzi, costituivano un dato interessante, forse superiore a quello delle stesse feste pasquali. Già al giovedì pomeriggio ci si recava tutti in “trapèl” alla parrocchia “a vidé a mazá ul Signui, cunt ul sacrista ch’ al gha déa i scuái al preóstu “ . Cessata la cerimonia, che rievocava la tragedia del Calvario, si correva a casa trafelati e ansimanti, a recare la luttuosa notizia che il Signore era morto. Le nostre mamme si mettevano subito il fazzolettone nero di lutto e, la sera, appena cenato, si recitava il rosario sottovoce per non turbare il silenzio, fatto di mestizia e di dolore, che incombeva sul mondo degli umani, poi si andava a letto.
Il venerdì il lutto raggiungeva la sua massima espressione di afflizione. Cristo morto e a cagion nostra, a cagion dei nostri peccati. Tutti colpevoli !
Il venerdì Santo le campane rimangono silenziose ed anche gli uccelli – dicevano le nostre care mamme – in questo luttuoso giorno non cantano, e - semmai fanno udire qualche zippio - non è zippio di allegrezza ma di pianto. Le stesse locomotive dei treni fischiavano i loro segnali di partenza e di manovra con la massima attenuazione, poiché il fischiar forte sarebbe stato considerato come un atto sacrilego. Le mammine, ai neonati che facevano uè uè, sussurravan loro nell’orecchio “ taaasi car bambéeen ch’a gh’é mortu ul Signùi… ciiitu, né, fa ‘l bon“. E a noi più grandicelli pareva che l’infantolino avesse inteso e si tacesse.
La giornata non bastava a fare il giro di tutte le chiese e le chiesuole dove era esposto, per il bacio di perdonanza, il crocefisso: S. Giovanni, S. Maria, S. Michele, S. Croce, Madonna di Grázi, S. Rocco, Madona da prá, S. Gregorio e perfino Brughètu. Le nostre mamme che non avevan tempo di girare per tutte le chiese, ci chiedevano informazioni se nella tal chiesa c’era molta gente, se nella tal altra il Crocefisso esposto era ancora quello dell’anno prima o ne avevan messo uno nuovo più grande, se prima di baciare il Signore noi s’era recitata la dovuta preghiera. E noi si rispondeva a puntino, con tutti i dettagli possibili e immaginabili. Naturalmente il Venerdì Santo era giorno di digiuno; ma per evitare che i ragazzi rosicchiassero, per fame, gli angoli del tavolo, i nostri genitori ci concedevano una zuppa condita “cunt una gügiáa d’oli” a mezzogiorno e un “tazinén da macu” la sera (e com’era buono !).
La mattina del Sabato i ragazzi eran tutti nuovamente mobilitati: chi per recarsi al battistero, e prendere l’acqua santa, chi per fare ascolto al primo tocco di campane dell’ “alleluja”.
I giorni della vigilia, per noi ragazzi, costituivano un dato interessante, forse superiore a quello delle stesse feste pasquali. Già al giovedì pomeriggio ci si recava tutti in “trapèl” alla parrocchia “a vidé a mazá ul Signui, cunt ul sacrista ch’ al gha déa i scuái al preóstu “ . Cessata la cerimonia, che rievocava la tragedia del Calvario, si correva a casa trafelati e ansimanti, a recare la luttuosa notizia che il Signore era morto. Le nostre mamme si mettevano subito il fazzolettone nero di lutto e, la sera, appena cenato, si recitava il rosario sottovoce per non turbare il silenzio, fatto di mestizia e di dolore, che incombeva sul mondo degli umani, poi si andava a letto.
Il venerdì il lutto raggiungeva la sua massima espressione di afflizione. Cristo morto e a cagion nostra, a cagion dei nostri peccati. Tutti colpevoli !
Il venerdì Santo le campane rimangono silenziose ed anche gli uccelli – dicevano le nostre care mamme – in questo luttuoso giorno non cantano, e - semmai fanno udire qualche zippio - non è zippio di allegrezza ma di pianto. Le stesse locomotive dei treni fischiavano i loro segnali di partenza e di manovra con la massima attenuazione, poiché il fischiar forte sarebbe stato considerato come un atto sacrilego. Le mammine, ai neonati che facevano uè uè, sussurravan loro nell’orecchio “ taaasi car bambéeen ch’a gh’é mortu ul Signùi… ciiitu, né, fa ‘l bon“. E a noi più grandicelli pareva che l’infantolino avesse inteso e si tacesse.
La giornata non bastava a fare il giro di tutte le chiese e le chiesuole dove era esposto, per il bacio di perdonanza, il crocefisso: S. Giovanni, S. Maria, S. Michele, S. Croce, Madonna di Grázi, S. Rocco, Madona da prá, S. Gregorio e perfino Brughètu. Le nostre mamme che non avevan tempo di girare per tutte le chiese, ci chiedevano informazioni se nella tal chiesa c’era molta gente, se nella tal altra il Crocefisso esposto era ancora quello dell’anno prima o ne avevan messo uno nuovo più grande, se prima di baciare il Signore noi s’era recitata la dovuta preghiera. E noi si rispondeva a puntino, con tutti i dettagli possibili e immaginabili. Naturalmente il Venerdì Santo era giorno di digiuno; ma per evitare che i ragazzi rosicchiassero, per fame, gli angoli del tavolo, i nostri genitori ci concedevano una zuppa condita “cunt una gügiáa d’oli” a mezzogiorno e un “tazinén da macu” la sera (e com’era buono !).
La mattina del Sabato i ragazzi eran tutti nuovamente mobilitati: chi per recarsi al battistero, e prendere l’acqua santa, chi per fare ascolto al primo tocco di campane dell’ “alleluja”.
Davanti alla porta del Battistero, per tempo, facevan ressa gli aspettanti e ciascuno cercava di farsi innanzi per accaparrarsi un buon posticino. Talvolta i ragazzi più piccoli venivan sopraffatti dai più grandicelli che cercavan di togliere loro il posto. La violenza, in questo modo esercitata, dava luogo a dei “caragnamenti” che finivano col richiamare l’attenzione degli adulti, i quali non mancavano di intervenire, se occorreva, anche con mezzi bruschi, a ristabilire i diritti di precedenza. Quando finalmente il portone si apriva e apparivano i sacristi, la folla caricava a ondate alzando “ramine” e bottiglie. I poveri sacristi erano stretti d’appresso e quasi soffocati, tanto da esser costretti, ogni tanto, a dar di mano alla scopa per far largo e trarre un po’ di respiro. Appena ottenuta l’acqua santa, i ragazzi correvano a casa a recarla ai genitori, i quali rifornivano subito gli acquasantini “da có dul léciu” e il rimanente lo tenevano per gli usi dell’annata e in caso di estrema necessità.
L’attesa del primo “alleluia” incominciava verso le nove del mattino. I ragazzi giravano con impazienza nei cortili e si davano la parola l’un l’altro, Gli ultimi minuti passavano tra un orgasmo spasmodico. Quando la campana dava il primo squillo di liberazione, si scatenava fremente la corsa per tutte le strade di campagna ad avvertire i contadini “ch’a gh’éa ‘ndèi in cièl ul Signùi”. Evviva, Evviva ! Oh che gioia, che consolazione poter urlare a squarciagola dopo un giorno e mezzo di forzato silenzio ! “Ul Signùi al è ‘ndèi in cièl”: il lutto è finito, ora comincia l’esultanza. E’ vero che Cristo prima di salire al Cielo è rimase ancora in missione quaranta giorni sulla terra e il sabato prima di Pasqua era appena resuscitato da morte; ma per i ragazzi non c’era tempo da porre in mezzo: quando Cristo resuscita (almeno per i ragazzi bustocchi) “al va adretüa in cièl, senza fermàssi”.
Quel discolo del Giürümén, il figlio maggiore del casellante delle Nord, una volta ha avuto persino l’improntitudine di affermare che lui l’aveva visto “ul Signùi a ‘ndá in cièl” e non aveva fatto in tempo a vederlo (asseriva il millantatore) che “a l’éa già dasúùa di nüi”. Sua mamma, però, non gliela fece buona e con uno scappellotto o rimbrottò: “giüdé d’un giüdé, propi da tì l’ha da fassi vidé ul Signùi ! Curi sübutu a cunfesássi e dìgal né, al predi, ch’a t’é dì anca chèla busìa chi !”.
Il Sabato era già una festa e si pregustava “u insaláta e ciápi” che si sarebbe mangiata l’indomani. Che bella festa la Pasqua ! Cristo è risorto. E con lui risorge la divina natura, la quale incita a compiere buone opere, poiché gioia non v’ha senza bontà.
L’attesa del primo “alleluia” incominciava verso le nove del mattino. I ragazzi giravano con impazienza nei cortili e si davano la parola l’un l’altro, Gli ultimi minuti passavano tra un orgasmo spasmodico. Quando la campana dava il primo squillo di liberazione, si scatenava fremente la corsa per tutte le strade di campagna ad avvertire i contadini “ch’a gh’éa ‘ndèi in cièl ul Signùi”. Evviva, Evviva ! Oh che gioia, che consolazione poter urlare a squarciagola dopo un giorno e mezzo di forzato silenzio ! “Ul Signùi al è ‘ndèi in cièl”: il lutto è finito, ora comincia l’esultanza. E’ vero che Cristo prima di salire al Cielo è rimase ancora in missione quaranta giorni sulla terra e il sabato prima di Pasqua era appena resuscitato da morte; ma per i ragazzi non c’era tempo da porre in mezzo: quando Cristo resuscita (almeno per i ragazzi bustocchi) “al va adretüa in cièl, senza fermàssi”.
Quel discolo del Giürümén, il figlio maggiore del casellante delle Nord, una volta ha avuto persino l’improntitudine di affermare che lui l’aveva visto “ul Signùi a ‘ndá in cièl” e non aveva fatto in tempo a vederlo (asseriva il millantatore) che “a l’éa già dasúùa di nüi”. Sua mamma, però, non gliela fece buona e con uno scappellotto o rimbrottò: “giüdé d’un giüdé, propi da tì l’ha da fassi vidé ul Signùi ! Curi sübutu a cunfesássi e dìgal né, al predi, ch’a t’é dì anca chèla busìa chi !”.
Il Sabato era già una festa e si pregustava “u insaláta e ciápi” che si sarebbe mangiata l’indomani. Che bella festa la Pasqua ! Cristo è risorto. E con lui risorge la divina natura, la quale incita a compiere buone opere, poiché gioia non v’ha senza bontà.
Carlo Azimonti