Scrivo qui uno strampalato aforisma, quasi una burlesca filastrocca, che in tempi lontani si poteva leggere in certe trattorie e osterie di campagna.
Questa introduzione che appare bizzarra e lo è (e anche bislacca) mi dà pure occasione di parlare del mangiar sano e del bere con criterio. E per “bere” s’intende il vino. Si, perché il bere del buon vino ha i suoi vantaggi e qualifica le persone. Personaggi insospettabili hanno parlato di cibo e di bevanda in modo laudativo. “Dopo la musica e la poesia il gusto per la bellezza si esercita negli uomini sul cibo e sul vino” (Don Luigi Giussani fondatore di CL.)
E per millantare erudizione cito anche Shakespeare: “Il buon vino è assai gioviale creatura, se è ben usata” (è detto nell’Othello); l’antico poeta latino ha scritto: “D’inverno bevo e canto per la gioia che la primavera è vicina. Viene primavera e ribevo per la gioia che finalmente è arrivata”
Per non lasciarci mancare nulla ecco anche Quinto Orazio Flacco: “Nessuna poesia scritta da bevitori d’acqua può piacere o vivere a lungo.”
Intendiamoci subito: prudenza e moderazione. Anche se i nostri vecchi lasciavano correre un po’ di più e arrivavano ad ammettere che una mezza “ciuca” dà fastidio a nessuno.
Una mèza ciuchéta la ga nösi a nissögn.
Sarà anche così, ma quando il campanaro Batistón entrò nell’osteria della Pinetta del Gildo a cercare aiuto, bisognava tirare le sei corde della grande scampanata della Risurrezione, trovò i volontari della mèza ciuchéta e per poco non crollarono le campane con tutto il campanile della nostra Chiesa Vecchia, tanta era la “gioia pasquale” che si portavano dietro.
Una volta nelle osterie del Lombardo Veneto ci davano dentro così di brutto che l’Imperiale Regio Governo Austriaco dovette intervenire impedendo agli osti di mescere più di mezzo litro di vino. Ma, cacciato poi l’invasore, la festa per la liberazione durò a lungo e riportò alle antiche usanze.
Ora, e mi dispiace, non si fanno più simpatici incontri con tipi (dove siete Cescani e Maca Felice, Vanzaghelón e Cadorna) dagli sguardi persi e con le lingue impastate per troppa dimestichezza con la tazzetta. Ed ecco anche la nostalgia per gli appena un po’ brilli , con quello stato felice di euforia che faceva tanto vigilia di festa. Nostalgia per la leggera ubriachezza di vino che quasi faceva tenerezza; non la mazzata di alcool che fa uscire di senno.
E’ così bella la condivisione della tavola con gli amici che brindano ai tempi migliori, e le pacche sulle spalle che nascono del gorgogliare del vino.
Mah. Ci lasciamo andare a bevande che non ci appartengono.
Dimentichiamo che c’è tutta una letteratura greco latina, e da lì cristiana, e una intera civiltà del vino. Che poi il berne tanto o poco, o nulla, lo debba dire il dottore può anche essere. Ma sentite cosa dice a questo proposito un proverbio francese: “Ci sono al mondo più vecchi bevitori che vecchi dottori”
E’ ora di chiudere. Chiedo scusa se siamo stati ondivaghi sul tema. (Non è che anche l’articolista intanto che scriveva…) Per farmi perdonare vi regalo un proverbio nostrano sulla Festa dell’Ascensione:
e i egenti i rèstan giù a fa rabèl