Ul Farascèn e ul Pisagügi
Una storiella inglese narra di un Lord Macintosh, uno dei tanti, nobile proprietario terriero e ricchissimo, il quale era parecchio avaro e soleva girare con una palandrana sdrucita ed assai malridotta. Quando un amico lo incontrò in un villaggio e glielo fece notare, rispose : “qui nessuno mi conosce e pertanto non me ne importa”.
Di nuovo, l’amico lo incontrò a Londra, ed alla medesima osservazione rispose : “ qui tutti sanno chi sono, e pertanto non me ne importa”. Nobiltà a parte, potremmo riconoscere qualche analogia con due personaggi della nostra Busto dei tempi andati. Il Marcora Farascèn era riccchssimo. Sciùr ‘me ‘n Giudè. Ricco sfondato come i “mercatanti di Giudìa” della tradizione. Ed avaro assai. Dunque “al gh’aèa i sacògi fei a limaga”, le tasche come la casetta della chiocciola, relativamente ampia all’ingresso ma della quale è impossibile intravvedere il fondo. In altri termini “tacà sű da mati”. Ecco alcuni ricordi di mio nonno, che lo conosceva bene. Come il Macintosh di cui sopra, girava per Busto con “ul vistì tut lisu” ed anche con un vistoso buco nel “calabresu”, il calabrese, un cappello in voga a metà Novecento. La sua spiegazione era : “ma séu indurmentà ‘nanzi al fögu e gh’è saltà ‘na filapra” . “ mi ero addormentato davanti al camino e da esso è partita una scintilla”. Con quel look non si passava inosservati. Così, un giorno il Farascèn era a Milano, dove si faceva portare dal sciaför (autista) su di una splendida limousine di sua proprietà, però fermandosi in periferia e proseguendo in tram “par fassi vidè no”. Decise di prendersi un caffè al Cova, celebre Caffè in via Montenapoleone. Si sedette ad un tavolino. E si appisolò sulla sedia. Il cameriere, visibilmente preoccupato per l’aspetto dimesso del cliente, credendo che si trattasse di un barbone o mendicante, lo destò con una tirata di bavero dicendogli : “ Uè, umètt, l’è minga el post per tì !” |
Il Farascèn, infuriato, estrasse il portafoglio a fisarmonica gonfio di banconote di grosso taglio, urlando : “dùa l’è ul Sciùr Cùa ? (ripetuto tre volte). Che mì ga töu tuscossi e va càsciu tücci föa di ball” !!!
Intendeva con questo incontrare il padrone del caffè, acquistare il locale e licenziare sui due piedi il personale al completo . Ovviamente non se ne fece niente, ma fu servito con tutti gli onori del caso. L’ultimo episodio si riferisce ad Edoardo Gabardi detto il Pisagűgi, in quanto la leggenda narrava che spandesse l’urina attraverso la cruna di un ago, per risparmiare anche su quella. Più che leggenda era una definizione creata da Carlo Azimonti che mio nonno, amico di entrambi, chiamava “ul Circa” forse perché era solito indicare la sua età in modo approssimativo per non rischiare di perdere eventuali conquiste femminili. Il fatto avvenne alla Banca Commerciale Italiana di corso XX Settembre. Il Gabardi doveva concludere un affare di rilevante portata, e vi si recò per un prelevamento. A quei tempi , tanto per dare un’idea, la banconota di maggior taglio era il “cartòn da mila”, banconota da 1000 lire di circa 25 centimetri di larghezza e 15 d’altezza, con un potere d’acquisto di molto superiore all’odierna banconota da 500 Euro. (Questo spiega perché sia il Farascèn che il Pisagűgi avessero un enorme portadanè a soffietto). Compilò un assegno per l’importo di un milione di lire, cifra astronomica per quei tempi, intestandolo a se stesso. Il problema fu che nell’indicare l’importo in lettere scrisse “ UN MIGLIONE”. Allora, anche per regolarità, il cassiere gli fece osservare : “Commendatore, un milione si scrive senza “g”…..” E la risposta fu “Bràu ! Pröa ti a fal senza G , a vidè sa tu lu pagan!”. Tradotto in italiano : “Bravo ! Prova tu a compilarlo senza “G” e vediamo se riesci ad incassarlo !”. Se poi corresse o rifece l’assegno, questo la storia non dice. Carlo Solbiati |