MODI DI DIRE - parte 2
Modi di dire – espressioni gergali – 2
Il progredire della civiltà portò molti vocaboli nuovi con i quali i bustocchi dovettero confrontarsi.
La radio venne subito assimilata e forse mascolinizzata: “u’ aradiu” , si diceva.
Più controverso è il termine “gibòtu” (jukebox). Un congegno riproducente musica, come il fonografo, il giradischi, i primi registratori a nastro , avevano già un termine bustocco che poteva andare bene. “Ul viadoru” era il cosiddetto “organetto di Barberia”, che suonava melodie con un meccanismo a manovella mediante originali schede perforate. Era chiamato anche “barlàm” .
Chi ripeteva continuamente certe affermazioni veniva ammonito : “taca nò ul viadoru” , “sigüta nò a fa’ndà ul viadoru” . L’origine della parola era derivata da una litania riferentesi all’Eucarestia che suonava più o meno così : “vi adoro ogni momento o vivo pan del ciel gran sacramento”. Nella categoria delle cose impossibili ed inutili, “và a cà a mòngi ul lù cunt’a cavagna” era la controparte di “vai a scopare il mare con la forchetta” delle popolazioni rivierasche. Se poi un bimbo od un adulto si aspettavano ingiustamente un regalo od una mancia, gli si prometteva “un bèl nigutèn d’or scartuzzà in da ‘a carta d’argentu”! Al contrario, se regalo o mancia venivano effettivamente elargiti, il percipiente “andèa via cuntentu me ‘n ràtu !” . “ Ul paciaròtu” era un preparazione alimentare popolare, sorta di zuppa con pane ed ingredienti vari. Assunse vari significati traslati, “situazione confusa, inestricabile” oppure “facia da paciaròtu” per un individuo rubicondo ed in salute, forse anche troppo. Un “bel fiö” era tale perché “al fasèa bèl vidè” , era un piacere guardarlo. Insomma, “l’èa dispostu”, “al ‘gnèa sü bèn” , cresceva florido ed in salute. Una ragazza fiorente ed attraente, specialmente se bionda, era una “fàcia da zücar e bütèr” , faccia di burro e zucchero. Se al contrario si presentava in salute ma con fattezze grossolane era un bel “cistòn da verzi” . Al tempo delle bionde platinate, una bella bionda bustocca fu invece chiamata “cò da risotu” Un individuo pallido e macilento era invece “gialdu ‘me ‘n pètu” . Oppure “sciscià d’i bissi” . Poiché le bisce morsicavano ma non succhiavano il termine dovrebbe essersi riferito alle sanguisughe. Sempre nel campo dei colori e delle loro sfumature, oltre al giallo di cui sopra, c’era il “negar ‘me ‘n scurbàtu ( o sgurbatòn)” , il corvo; il beige chiaro era “merda da miscèn” ed il rosaceo, a seconda delle sfumature, era “làci e vèn” , latte e vino, fino al “trasù da ciòcu” degli odiati cugini calcistici lilla del Legnano. |
Magia (quasi) nera : Woodoo bustocco :
“vöngi ul butòn” : quando una persona soffriva di mal di stomaco si usava applicargli sull’ombelico (!) ( butòn d’ul ventar) una mistura a base oleosa (formula ignota) nella convinzione che potesse “muisnàghi i instestìtti” , ammorbidire le budella contratte e doloranti, restituendogli la salute. Negli anni Cinquanta una nonna parlava del nipotino, purtroppo portatore di handicap : “in stèi chì daa curti ch’an vedü ch’al gnèa sü dispostu e ma l’àn strià. E sì cha g’ù dèi i so bei cügià da ùcelina ma l’è vanzà inscì” . Temendo un incantesimo da parte dei vicini di casa, aveva somministrato al nipotino dei cucchiai di petrolio da illuminazione (lucilina?), senza ottenere risultati, per fortuna nemmeno nefasti. “Ul parlà da gràssu” . Parlare, chiacchierare (ciciarà) su argomenti sexy. Temi frivoli e maliziosi. Non erano bestemmie (bastèm, tià giù i madön) e nemmeno “paulàsci” . Una litania irridente una persona qualsiasi afflitta da meteorismo, in qualsiasi modo si chiamasse, era : “Carlètu , fa ‘n pètu, fan dü, sghìa ul cü !” . ( Sghià : strappare, lacerare). “Càn ul cü al sa frusta, l’anima la sa giüsta”. Usato per donne vivaci e sessualmente attive. Quando l’avvenenza diminuisce con l’avanzare degli anni, ecco le improvvise conversioni ed il ritorno ad una vita moralmente apprezzabile. Senza citare la bestemmia più famosa del mondo, si può dire che il bustocco doc era anche “timorato di Dio”, nel senso che l’imprecazione era per così dire “camuffata”, come se si potesse sfogarsi senza d’altra parte incorrere nel peccato : “craménzu, cramesca, cramémbal, orcu diàul, orcu dìnciu, San Furmentu ed anche il misterioso “San Cristòfan d’Ulanda!” Per finire (par mò), anche lo stadio, come luogo di aggregazione, era una miniera di saggezza dialettale. L’infortunio di un avversario, vero o simulato che fosse, era sarcasticamente commentato indicando le seguenti terapie : Un esempio di creatività fu il tirare in campo un rotolo di carta igienica gridando : “segnalinea ! tè, ciàpa e fa Natàl !” Un capolavoro il gustoso insulto all’arbitro : “và a cà a cüä ‘a to miè, ca la spüza da cupertòn” ! Tutti ricordiamo quei fuochi notturni……. Carlo Solbiati |