Parliamo di soldi (bustocchi)

PARLEM DA DANE'



I soldi secondo un buon bustocco !


Adam Smith, Malthus, Gresham, Keynes a Busto nessuno li ha mai conosciuti. Ma i bustocchi conoscevano e conoscono assai bene i principi di alcune leggi economiche formulate da essi.
I “bisogni elementari dell’uomo” erano questi :
  • “Primu dàssi pü i sberli aa buca”. Alimentazione adeguata.
  • “Segondu vèghi ‘n téciu”. Un riparo ed una dimora.
  • “E pö, un pò da danè”.
    Ora che siamo nell’era dell’euro, si può affermare che il termine “lira” nel dialetto bustocco non esiste e non è mai esistito. Infatti i vocaboli generici “denaro”, “soldi” erano quasi esclusivamente “i danè”. Termine antico e mondiale, dal denarius romano al dinar di svariati paesi islamici.
    C’erano anche vocaboli alternativi : “ghèi” dal “ghelli” del milanese con varie etimologie, dal termine “geld” al valore nominale di una moneta. Come le “svanziche” derivavano dal taglio di una diffusissima moneta da “zwanzig” (venti) kreuzer dell’epoca della denominazione austriaca. I “quattrini”, abbastanza diffuso anche in italiano, era scarsamente usato essendo pertinente alla monetazione di territori lontani (Toscana), così come i “baiùcch”, baiocchi, si diceva dall’Emilia fin nel Pavese, ma non da noi.
    Ovviamente, alludendo al denaro, era efficace dire “ ’sti chì!” Questi ! Accompagnando con il gesto universale dello sfregamento del pollice con l’indice.
    Quando invece si trattava di indicare una cifra, una quantità determinata di denaro il termine univoco era : “franchi”, eredità della dominazione ottocentesca francese. “Un francu, dès franchi, mila franchi” e così via. Soddisfatti i bisogni elementari, si poteva passare a temi più impegnativi.
    “Lauà e fa sü quatar danè” era l’imperativo. Il risultato dipendeva poi da svariati fattori.

  • I più abili e fortunati riuscivano a “fa sü danè ‘me gèra”, ammucchiare soldi a palate così come si ammucchia la ghiaia con il badile. Così, chi era povero e diveniva agiato : “mò al bùfa !”, “n’à fa sü un burdèl, da dané".
    Quando le tasche non bastavano più, si “impienìa ul bulgiòtu” che doveva essere una specie di sacco di pelle od altro contenitore ed occorreva occultare questi contanti. “Mètai in berta” voleva dire questo, anche se il termine aveva un certo sapore di qualcosa di poco chiaro e poco onesto. Per un esempio, potremmo dire che i politici del giorno d’oggi (e forse di sempre) spesso “i ciàpan i danè e i u mètan in berta”.
    Comunque, negli affari è sempre importante la chiarezza. Se la controparte non appariva cristallina, valeva il detto : “mèi lü cun’t i danè sul tàul che n’altar a crèta”. Il rientro dai crediti non è sempre agevole.
    La forma scritta delle transazioni commerciali in bustocco ha un termine preciso : “méti giù”.
    Méti giù quatar nümar. Méti giù quatar paòl. Metèm giu quatar cönti.
    E chi avrebbe dovuto incassare era pregato di “calcà giu mìa tropu a matita”. Non essere esoso.
    Per terminare, l’evoluzione storica degli strumenti finanziari e di investimento rendeva tuttavia poco redditizio metter via solo “marenghitti” d’oro, per cui la ripartizione ideale veniva formulata con il criterio del “terzo”. Un terzu : cà, un terzu : aziòn e un terzu : sùta ul quadrèl. Quest’ultimo voleva dire “valuta, contanti e metalli preziosi prudentemente occultati sotto il pavimento”. Questa era una soluzione difensiva, perché un bustocco doc non poteva non conoscere il detto : “aziòn : danè d’i quaiòn !”. A giügà in bursa sa pudèa anca giuntàghi tüti i danè, andà a gambi in l’aria e’gnì nétu me ‘n balètu !

    Carlo Solbiati

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