All’ultimo giovedì di gennaio ricorre il dì della “giöbia” e si fa il “scenen”
Questa usanza vuol significare che il vero inverno è ormai finito e si entra nella primavera. Per questo si dà fuoco al pagliaccio, che simboleggia l’inverno stremato e consunto.
Un vecchio proverbio nostrano chiarisce che “ul genar al fa i ponti e ul febrar i u rompi”.
Questo gennaio, che alla fine noi volgiamo l’ultimo giovedì del mese cade proprio l’ultimo giorno, in coincidenza coll’ultimo “dì di merli”.
Motivo questo di grande soddisfazione.
Anche se c’è neve in questo giorno, l’inverno è tuttavia agonizzante. Il “dì scenen” è di tradizione fare una piccola cena in famiglia o in compagnia di amici, in segno di buon augurio per il prossimo carnevale e per la susseguente primavera, foriera di una buona Pasqua.
La cena si concreta in un bel piatto di risotto sormontato da un “scimessu” di salsiccia, che è poi la “lüganiga”. Non saremo proprio noi, amatori di giustizia, a togliere ai milanesi il brevetto del risotto e ai “monsciaschi” quello della “lüganiga”. Non sia mai detto. Ma la combinazione ingegnosa della “lüganiga” col risotto spetta proprio a noi bustocchi.
Il risotto “sfregüaa”
Ci sono molte maniere di preparare il risotto.
Risotto coi gamberi, risotto con le rane, risotto coi piselli, risotto con le patate, risotto coi fagioli, risotto con la salsiccia “sfregüaa”, risotto alla paesana, risotto alla montanare, risotto alla marinara; ma tutti questi risotti non hanno nulla da vedere col classico risotto alla milanese e tanto meno col combinato composito risotto bustocco del “dì scenen”.
Per fare un risotto come si deve per questa particolare ricorrenza, occorre quanto segue: riso vialone scelto, brodo eccellente, burro di classe, zafferano pregiato, formaggio di grana vecchio.
Prima si mette a rosolare un bel pezzo di burro, poi si versa il riso e lo si rigira; si aggiunge il brodo ben caldo e poco alla volta; a metà cottura si mette lo zafferano; verso la fine si dà la sua brava mantecata con del burro; si aggiunge poi una buona manciata di grana trito e con due remenate il risotto è pronto. In un tegame a parte si saranno messi a cuocere tanti pezzi di salsiccia quanti sono i commensali. Sulla salsiccia a piena cottura, si spruzzerà del vino di abboccato sostenuto, per smagrire il “lüganegato”.
Il risotto si serve nelle fondine. In mezzo al mucchio del risotto si fa un buco col cucchiaio e nel buco si pianta il pezzo di “lüganiga” e vi si aggiunge un cucchiaio di “bagnifa”.
Un ultimo pizzicone di trito sul tutto ed ognuno può mangiare come vuole, a piacimento. Per chi desidera particolari ragguagli palesiamo che il buco in mezzo alla pigna del risotto simbolizza un episodio umoristico capitato a Busto ai tempi della guardia nazionale.
Questa usanza vuol significare che il vero inverno è ormai finito e si entra nella primavera. Per questo si dà fuoco al pagliaccio, che simboleggia l’inverno stremato e consunto.
Un vecchio proverbio nostrano chiarisce che “ul genar al fa i ponti e ul febrar i u rompi”.
Questo gennaio, che alla fine noi volgiamo l’ultimo giovedì del mese cade proprio l’ultimo giorno, in coincidenza coll’ultimo “dì di merli”.
Motivo questo di grande soddisfazione.
Anche se c’è neve in questo giorno, l’inverno è tuttavia agonizzante. Il “dì scenen” è di tradizione fare una piccola cena in famiglia o in compagnia di amici, in segno di buon augurio per il prossimo carnevale e per la susseguente primavera, foriera di una buona Pasqua.
La cena si concreta in un bel piatto di risotto sormontato da un “scimessu” di salsiccia, che è poi la “lüganiga”. Non saremo proprio noi, amatori di giustizia, a togliere ai milanesi il brevetto del risotto e ai “monsciaschi” quello della “lüganiga”. Non sia mai detto. Ma la combinazione ingegnosa della “lüganiga” col risotto spetta proprio a noi bustocchi.
Il risotto “sfregüaa”
Ci sono molte maniere di preparare il risotto.
Risotto coi gamberi, risotto con le rane, risotto coi piselli, risotto con le patate, risotto coi fagioli, risotto con la salsiccia “sfregüaa”, risotto alla paesana, risotto alla montanare, risotto alla marinara; ma tutti questi risotti non hanno nulla da vedere col classico risotto alla milanese e tanto meno col combinato composito risotto bustocco del “dì scenen”.
Per fare un risotto come si deve per questa particolare ricorrenza, occorre quanto segue: riso vialone scelto, brodo eccellente, burro di classe, zafferano pregiato, formaggio di grana vecchio.
Prima si mette a rosolare un bel pezzo di burro, poi si versa il riso e lo si rigira; si aggiunge il brodo ben caldo e poco alla volta; a metà cottura si mette lo zafferano; verso la fine si dà la sua brava mantecata con del burro; si aggiunge poi una buona manciata di grana trito e con due remenate il risotto è pronto. In un tegame a parte si saranno messi a cuocere tanti pezzi di salsiccia quanti sono i commensali. Sulla salsiccia a piena cottura, si spruzzerà del vino di abboccato sostenuto, per smagrire il “lüganegato”.
Il risotto si serve nelle fondine. In mezzo al mucchio del risotto si fa un buco col cucchiaio e nel buco si pianta il pezzo di “lüganiga” e vi si aggiunge un cucchiaio di “bagnifa”.
Un ultimo pizzicone di trito sul tutto ed ognuno può mangiare come vuole, a piacimento. Per chi desidera particolari ragguagli palesiamo che il buco in mezzo alla pigna del risotto simbolizza un episodio umoristico capitato a Busto ai tempi della guardia nazionale.
Il salsicciotto e la “manteca”
La guardia nazionale aveva la sua caserma nella chiesa di S. Antonio. Gli arruolati montavano la guardia e facevano istruzione interna, per turno, il sabato sera e la domenica. Un sabato sera il “Sergent_Pata” avvertì gli uomini di guardia che arrivava l’ufficiale d’ispezione del mandamento, gli uomini, che stavano per dar mano ad un pasto straordinario di “lüganiga”, in fretta ed in furia per non cadere in punizione, si affrettarono ad infilare la salsiccia nelle larghe canne dei vecchi fucili e sopra vi premerono il famoso turacciolo antipolvere, col pomello inverniciato di rosso per far bella mostra. La faccenda corse liscia, l’ufficiale non se ne accorse e alla sua partenza ce ne volle del tempo per estrarre la salsiccia dalle canne dei fucili!
Dopo questo fatto, nel risotto si fece il buco per nascondere, in caso di controllo, la salsiccia, con la sovrapposizione di un semplice cucchiaio di risotto.
Una volta il risotto si “mantecava” con il “cervellato”, che era confezionato in salamini col budello inverniciato di giallo, ad indicare che doveva servire per condire il risotto e per Natale, questi salamini venivano regalati ai clienti abituali dei salumieri. Il popolo credeva che in questi salamini ci fosse della “niula” (midollo) ed invece si trattava soltanto di fresco strutto di maiale.
In seguito il “cervellato” scomparve, poiché gli immancabili sofisticatori trovarono il modo di impastarlo col burro e di venderlo per burro fino. Quando si dice mantecare il risotto, significa mettere del burro. Il vocabolo deriva dallo spagnolo “manteca”, che vuol dire precisamente burro e il “buro” in spagnolo è l’asino.
Attenti a non fare confusione!
Si tenga presente che è costume bustocco, per le cene, di limitarsi al piatto unico. Si tratti di “brusciti”, di “cazoeula”, di “rustisciana” e via discorrendo. Una sola eccezione può essere fatta per il piatto del “dì scenen”.
Siccome per fare il risotto occorre il brodo di buon manzo, è consentito, ai commensali che non si sono ingurgitati di risotto, di mangiare una fettina di lesso con due peperoncini “muiai in dul se”, col bagnetto di prezzemolo oppure con due foglie d’insalata o con un poco di mostarda. Bando a tutte le giardiniere e a tutte le altre verdure salmoiate. Roba da zingari!
Raccomandiamo sempre la scelta del vino, altrimenti il “scenen” va alla malora.
Per non subire altri rimproveri, come quelli dell’amico Pierino per i “brusciti” troppo costosi, mi corre l’obbligo di avvertire i lettori che le mie ricette non si riferiscono ai pasti di tutti i giorni, ma unicamente a quelli delle grandi solennità.
E se ancora non siete convinti “andè a stranguási cun dü metar da lüganiga”.
La guardia nazionale aveva la sua caserma nella chiesa di S. Antonio. Gli arruolati montavano la guardia e facevano istruzione interna, per turno, il sabato sera e la domenica. Un sabato sera il “Sergent_Pata” avvertì gli uomini di guardia che arrivava l’ufficiale d’ispezione del mandamento, gli uomini, che stavano per dar mano ad un pasto straordinario di “lüganiga”, in fretta ed in furia per non cadere in punizione, si affrettarono ad infilare la salsiccia nelle larghe canne dei vecchi fucili e sopra vi premerono il famoso turacciolo antipolvere, col pomello inverniciato di rosso per far bella mostra. La faccenda corse liscia, l’ufficiale non se ne accorse e alla sua partenza ce ne volle del tempo per estrarre la salsiccia dalle canne dei fucili!
Dopo questo fatto, nel risotto si fece il buco per nascondere, in caso di controllo, la salsiccia, con la sovrapposizione di un semplice cucchiaio di risotto.
Una volta il risotto si “mantecava” con il “cervellato”, che era confezionato in salamini col budello inverniciato di giallo, ad indicare che doveva servire per condire il risotto e per Natale, questi salamini venivano regalati ai clienti abituali dei salumieri. Il popolo credeva che in questi salamini ci fosse della “niula” (midollo) ed invece si trattava soltanto di fresco strutto di maiale.
In seguito il “cervellato” scomparve, poiché gli immancabili sofisticatori trovarono il modo di impastarlo col burro e di venderlo per burro fino. Quando si dice mantecare il risotto, significa mettere del burro. Il vocabolo deriva dallo spagnolo “manteca”, che vuol dire precisamente burro e il “buro” in spagnolo è l’asino.
Attenti a non fare confusione!
Si tenga presente che è costume bustocco, per le cene, di limitarsi al piatto unico. Si tratti di “brusciti”, di “cazoeula”, di “rustisciana” e via discorrendo. Una sola eccezione può essere fatta per il piatto del “dì scenen”.
Siccome per fare il risotto occorre il brodo di buon manzo, è consentito, ai commensali che non si sono ingurgitati di risotto, di mangiare una fettina di lesso con due peperoncini “muiai in dul se”, col bagnetto di prezzemolo oppure con due foglie d’insalata o con un poco di mostarda. Bando a tutte le giardiniere e a tutte le altre verdure salmoiate. Roba da zingari!
Raccomandiamo sempre la scelta del vino, altrimenti il “scenen” va alla malora.
Per non subire altri rimproveri, come quelli dell’amico Pierino per i “brusciti” troppo costosi, mi corre l’obbligo di avvertire i lettori che le mie ricette non si riferiscono ai pasti di tutti i giorni, ma unicamente a quelli delle grandi solennità.
E se ancora non siete convinti “andè a stranguási cun dü metar da lüganiga”.
Articolo firmato Carlo Azimonti pubblicato sulla Prealpina giovedì 31 gennaio 1952
P.s. A dispetto di quanto da alcuni sostenuto, i bustocchi dell'epoca di Carlo Azimonti erano soliti chiamare la Giöbia anche "Giübiana". Lo stesso Azimonti lo scrive in una delle sue magistrali opere.